IL VOTO DI CONDOTTA

 

La crisi economica genera un riflesso nei privilegiati: fare di tutto per scaricarne il peso sugli altri. Il travaso viene nobilitato con questo o quel termine secondo i contesti: i lavoratori sono chiamati alla responsabilità, le opposizioni politiche alla collaborazione, gli studenti alla disciplina, le masse alla fiducia nei governanti.

Nella scuola il termine «disciplina» è singolarmente equivoco: significa la scienza oppure la condotta. Questa equivocità non è casuale, indica anzi un contenuto, e cioè che la scienza non è un bagaglio o un ornamento, ma un modo di vivere, quello per cui prima di reagire a uno stimolo ci si chiede il suo perché.

L’attuale governo stimola la scuola mutando la natura del voto di condotta: non più un atto esornativo ma una valutazione con conseguenze sulla media e sulla promozione, come qualunque altra disciplina.

In questo modo la feconda equivocità del termine «disciplina» è distrutta. Le conseguenze sono gravi. Innanzitutto si accredita alle scienze una portata educativa più ristretta della realtà. Le scienze hanno i loro principi; li si può criticare se li si è capiti, ma li si può capire solo se li si è dapprima rispettati. Così quando valutiamo l’apprendimento scientifico degli alunni valutiamo non tanto una destrezza meccanica ma un’abilità che rimanda in ultima istanza a un comportamento morale.

In secondo luogo col voto di condotta il comportamento degli alunni diventa valutabile a prescindere dalle loro prestazioni. Gli insegnanti sono, però, tali perché esperti di una disciplina; le loro valutazioni investono anche la moralità degli alunni, ma soltanto in ultima istanza, come conseguenza inevitabile di un’analisi accurata dei pregi e dei difetti di quanto essi elaborano. Oltre l’autorità conferitagli dalla competenza scientifica, l’insegnante, che non ha assaporato più degli altri i frutti dell’albero del bene e del male, non gode di ulteriore competenza morale. Egli dovrebbe dunque rifiutare il giudizio diretto sulla moralità degli alunni, dovrebbe ricordare che ogni valutazione non verte mai direttamente sulla persona, ma sempre soltanto sul risultato del suo lavoro.

Che la valutazione del comportamento degli alunni sia moralmente ripugnante diventa evidente dal fatto che attribuisce la funzione di giudice all’insegnante che però nelle questioni di comportamento è sempre soltanto parte in causa. Una breve riflessione basta a comprendere che i comportamenti degli alunni sono sempre più innocenti di quelli dei loro docenti e soprattutto sono, più che una scelta deliberata, una risposta alla proposta culturale loro avanzata. La natura non fa tutti uguali, alcuni sono più vivaci di altri; ma la vivacità che a scuola sconfina nell’incontenibilità è quasi sempre una semplice risposta a una lezione noiosa e preparata male. La sanzione negativa dell’incontenibilità può dunque essere una doppia punizione della vivacità naturale: dopo averle inflitto la noia le si rifiuta il diritto di espressione perché colui che è imputato e potrebbe essere reo è saltato sulla sedia del giudice.

Il ministro che ha offerto la pedana per questo salto è lo stesso che ha passato l’esame da avvocato non nella natia Brescia, dove si prospettava difficile, ma nella ben più indulgente Catanzaro; è difficile che chi è così condiscendente con se stesso abbia una esatta nozione di cosa sia esattamente la severità. – La severità è l’accuratezza nel lavoro; essa non ha bisogno di sanzioni perché si trasmette irresistibilmente dall’insegnante agli studenti.

Da tutto questo derivano precise proposte operative. Qualora gli insegnanti non avessero più la spina dorsale necessaria a una santa obiezione di coscienza, dovrebbero almeno essere severi con il loro arbitrio: il voto di condotta non può sorgere dalle loro impressioni e dai loro pareri: «Con me chiacchiera!», «Ma vedi come si veste!», che sono sempre espressioni di parti in causa o di intolleranza. Se ogni valutazione disciplinare contiene rimandi in ultima istanza alla sfera morale, il voto di condotta deve avere per base le altre valutazioni, non deve dunque essere altro che la media dei voti leggermente corretta in alto o in basso a partire dai riscontri di ciò che il registro di classe contiene: le assenze e i ritardi, che di per sé sono ininfluenti sulla condotta ma che diventano rilevanti quando non sono giustificati puntualmente o non lo sono affatto, e le note disciplinari, la cui rilevanza deve essere considerata nulla a meno che non siano confermate ufficialmente dal preside, cui è dunque demandata la funzione di giudice che garantisce non solo il diritto dell’istituzione scolastica, ma anche quello dell’alunno.

 Prof. Di Remigio Paolo