INTRODUZIONE ALLA CRITICA DELL’AUTONOMIA SCOLASTICA

 

Dobbiamo liberarci dell’autonomia scolastica; essa è stata il primo atto della privatizzazione della scuola. Quando fosse compiuta, lo Stato erogherebbe mezzi finanziari scarsi e legati ai singoli alunni; per superare la soglia di povertà gli istituti dovrebbero chiedere elemosine ai ricchi privati, accoglierli nei loro consigli di amministrazione, arrendersi agli obiettivi dell’azienda capitalistica che esige manodopera flessibile, efficiente e a buon mercato, diventerebbero essi stessi aziende in competizione per attrarre più studenti. Il problema più grave non sarebbe però il differenziarsi delle scuole in ricche e povere, ma il definitivo disprezzo per la sapienza e la saggezza a causa della dipendenza da rozzi diktat economici.

Con l’autonomia la competizione tra gli istituti è già in atto; ciò consente di valutare subito quanto male l’aziendalismo possa fare alla scuola. L’istruzione non è vendita di merci voluttuarie, esige una disciplina che, prima del formarsi dell’abitudine, può anche essere dura (si pensi alla fatica dei bambini quando stanno seduti e scrivono); la sua natura è violata dall’impellenza di aumentare le iscrizioni; la scuola dell’autonomia ne è costretta ad alimentare l’arricchimento formativo di facile consumo per attrarre la «clientela» e a rinunciare a ogni rigore nell’acquisizione del sapere.

Se dopo undici anni di riforma le scuole superiori sono peggiorate, si impone a tutti la conclusione che le attività ricreative, lungi dall’arricchire, vanificano la disciplina così da impedire perfino l’addestramento professionale. Bisogna dunque restaurare la disciplina; ma non si tratta di un concetto alla portata di un politicante qualsiasi; «disciplina» significa l’atteggiamento cui invita l’autorevolezza della scienza; senza scienza la disciplina è il suo contrario, cioè coercizione: quella apre il soggetto, questa lo rinchiude.

Il politicante si illude, inoltre, che non l’autonomia, ma l’incompletezza dell’autonomia sia il male della scuola; invece di cancellare la riforma fallimentare e permettere che il sapere rifluisca nell’istruzione, le vuole dare compimento e costituire così un sistema per valutare l’efficacia della didattica degli insegnanti, incentivare il loro merito, colpirli per la loro inettitudine. La valutazione, però, è un concetto ancora più difficile di quello di disciplina; di norma sfugge anche ai pedagogisti, che non si sono ancora allarmati per l’invasione delle pratiche docimologiche nella scuola dell’autonomia. Poiché non hanno nulla a che fare con la vera valutazione didattica, queste pratiche hanno contribuito non meno degli «arricchimenti formativi» a rovinare la scuola; è dunque facile prevedere che la docimologia che la scuola privatizzata applicherà agli insegnanti impedirà loro di conformare la didattica alla natura della scienza e alla particolarità dei discenti e li costringerà, viceversa, ad adattare quella e questa alla natura particolare del sistema docimologico; così risulterebbero più efficienti quelli più pronti a sacrificare la scienza e i loro alunni, cioè i più ignoranti e i più cinici; l’istruzione precipiterebbe nella barbarie senza rimedi.

Con la riforma dell’autonomia le organizzazioni imprenditoriali hanno spinto i governi di Sinistra e di Destra a snaturare la scuola omologandola all’azienda toyotistica. È sembrato loro ovvio che, producendo automobili con più efficienza del taylorismo, l’azienda a qualità totale dovesse diventare modello dapprima per gli altri settori produttivi, poi per la pubblica amministrazione, infine per la scuola; invece, per dimostrare l’utilità di questa trasposizione, i suoi fautori avrebbero dovuto impegnarsi in un arduo argomentare, avrebbero dovuto rendere evidente l’identità essenziale tra studenti e automobili, tra insegnanti e operai, tra arredo scolastico e macchinario; ma se ne sono ben guardati; si sono limitati ad apostrofare con disprezzo («Ancora le lezioni frontali!») i recalcitranti, quelli che, a loro dire, l’inerzia legava al passato, e hanno pronunciato con entusiasmo visionario le nuove Parole.

Tanta enfasi, che serviva a dissimulare il carattere soltanto imitativo dell’operazione, ha fatto breccia nella coscienza degli insegnanti; pur avvertendo il controsenso della nuova didattica, non l’hanno fronteggiata, ma in parte, pur ribellandosi ai suoi eccessi, vi si sono adattati, in parte hanno sperato che il tempo la logorasse. Poiché è mancato lo smascheramento, ancora oggi, quando la Destra riprende la riforma mettendo in atto con franchezza il toyotismo come lean production e smagrisce il personale scolastico, la Sinistra e i sindacati suoi amici fingono di provare orrore e osano ancora proclamarsi adepti di una favolosa autonomia buona, senza troppi esuberi, osano ancora mostrare di credere, a dispetto dei risultati disastrosi dell’esperimento, che esso avrebbe resuscitato la scuola italiana a nuova vita se solo i loro governi fossero stati più durevoli e, detto tra i denti, gli insegnanti meno riottosi. Come D’Alema che, interrogato qualche anno fa sui disastri del liberismo, pontificava che ogni problema nasce non dal liberismo in sé, ma dal troppo poco liberismo, così i fautori più audaci dell’autonomia scolastica ne parlano come se essa non fosse stata ancora attuata, come se il decesso della scuola non ne fosse l’effetto – anzi, essa ne sarebbe il rimedio. Destra e Sinistra continuano a voler disintossicare la scuola iniettandole l’intera fiala di veleno.

L’inettitudine degli insegnanti italiani a fronteggiare la riforma scolastica è effetto di una cattiva coscienza, che impedisce loro di credere in quello che fanno. Da quando il Sessantotto colpì con durezza l’autorità in generale, mostrando la miseria umana e culturale dei baroni universitari abituati a farsi forti del loro ruolo, gli insegnanti hanno smarrito l’essenza del loro lavoro. L’autorità magistrale è diventata sospetta, è dilagato l’individualismo consumistico; la raccomandazione del godimento facile e del conformismo ha diffuso nelle scuole un’ignoranza che si nobilita con un pretenzioso scetticismo «di sinistra»; andando ben oltre Marx, per il quale, pur nella polemica contro la filosofia, ancora si dava una differenza tra scienza e ideologia, lo scetticismo progressista dà per avvio che la cultura sia espressione del potere e, deprecandolo quanto più lo desidera, tratta con disprezzo la scienza e la filosofia come se fossero soltanto strumenti con cui i tiranni ingannano i popoli. Così la scuola ha, però, segato il ramo su cui poggiava e si è squalificata di fronte agli alunni e alla società.

C’era una via per uscire dalla confusione, quella del rilancio dell’autorevolezza dell’insegnante attraverso la sua promozione scientifica: la sapienza  è una delle forme più alte di realizzazione della vita umana; la sua desiderabilità rende naturalmente autorevole chi la possiede e spinge ad accettare la disciplina necessaria per ottenerla. Così, gli insegnanti che, a dispetto del degrado delle università che spesso li hanno laureati senza istruirli e del livello culturale della società martoriato dalle televisioni, hanno acquisito scienza, con la loro autorevole serenità hanno rappresentato le sole oasi di didattica autentica che abbiano contrastato l’annientamento della scuola italiana.

Che il rimedio al male fosse la scienza era evidente dal fatto che la nostra scuola è tanto più inadeguata quanto più elevato il livello di competenza scientifica richiesto ai docenti: se le nostre scuole elementari sono soddisfacenti, le nostre scuole medie mediocri, le nostre scuole superiori cattive, è perché la scienza delle maestre, soprattutto dopo l’introduzione del modulo, è sovrabbondante rispetto alla curiosità e alle capacità di apprendere dei piccoli alunni, mentre la scienza dei professori è spesso insufficiente a fermare l’attenzione e a stimolare l’interesse degli adolescenti così che si dispongano alla disciplina.

Il motivo della scienza come fondamento di credibilità della scuola non è estraneo alla riforma dell’autonomia scolastica; essa ha però, come le Arpie, la poco invidiabile capacità di insozzare tutto ciò che tocca: vuole restituire autorevolezza all’insegnante non pretendendo da lui la sapienza che educa, ma facendone un tecno-scienziato dell’educazione, una figura oscillante tra l’addestratore e l’animatore. Essa ha esasperato i lati più inquietanti dei motivi più ambigui emersi negli anni della contestazione giovanile; se questa aveva lottato contro l’onnipotenza degli insegnanti, l’autonomia li umilia perché li rende esecutori nelle classi di decisioni collegiali dipendenti a loro volta da strategie centrali inappellabili, perché li riduce a somministratori di pretesi algoritmi didattici, perché li carica di faticosi adempimenti burocratici utili soltanto a esporli al formalismo dei contenziosi legali.

In questo contesto l’eredità più preziosa di Don Milani, valorizzata dal Sessantotto e penetrata nella stessa scuola dell’autonomia, l’idea che la scuola deve educare tutti e non limitarsi a constatare l’attitudine allo studio di alcuni e l’inettitudine di altri, a promuovere chi segue e a bocciare chi non segue, è stata sperperata nel momento in cui non è rimasto più nulla da seguire e agli alunni non è stata più richiesta l’applicazione di alcuna attitudine.

La  scuola dell’autonomia ha dimenticato la critica del «nozionismo», come nel Sessantotto si chiamò la conoscenza senza spessore scientifico, limitata al semplice «che», priva di un «perché» la cui universalità coinvolga il soggetto dell’apprendimento, e ne impone una forma particolarmente brutale quando, esigendo che i risultati ottenuti dagli alunni siano misurabili, non semplicemente verificabili, fa dei contenuti scientifici un pretesto per la somministrazione di un test di valutazione. Invece di criticare l’esclusività del manuale scolastico e invitare alla riscoperta del classico e della sua bibliografia, essa rifiuta il libro come tale e concede i suoi favori soltanto alla comunicazione multimediale.

Nella riforma dell’autonomia si è attuato il pericolo potenziale più grave nell’eredità del Sessantotto, il disprezzo per la scienza implicato dall’intolleranza all’autorità; la riforma ha approfittato del deficit di autocoscienza degli insegnanti per farne dei dipendenti d’azienda, ne ha depresso la dignità e l’iniziativa culturale proprio mentre le proclamava. La contraddizione, così sfacciata da paralizzare l’intelligenza, si è nascosta perché negli anni Novanta l’azienda è mutata e la nuova forma non è stata subito compresa. L’organizzazione taylorista del lavoro è stata soppiantata da quella toyotista e questa, col suo estorcere ai lavoratori non solo il loro tempo ma la loro anima per la qualità totale del prodotto (è questo il senso ultimo della «flessibilità»), ha dato una rappresentazione di sé come coinvolgimento della soggettività, quindi come superamento dell’alienazione implicata nel dispotismo taylorista. Ormai è invece evidente che il toyotismo, proprio perché assorbe integralmente la soggettività dei lavoratori ferma restando la loro separazione dai mezzi di produzione, è una forma intermedia tra lavoro salariato e lavoro schiavistico: del lavoro salariato ha la libertà del lavoratore come persona che vende con un contratto la sua forza-lavoro, dello schiavismo ha la sua riduzione integrale a strumento di lavoro; la contraddizione tra libertà e disponibilità totale alle esigenze aziendali si dà la forma per cui il lavoratore toyotista vuole essere soltanto macchina creativa della sua azienda.

L’annullarsi della differenza taylorista tra tempo di lavoro e tempo libero, tra prestazione lavorativa e personalità, in quanto non è imposto dalla violenza diretta come nello schiavismo, ma da condizionamenti indiretti che interiorizzano come dovere morale l’asservimento della personalità agli obiettivi aziendali, ha come esito possibile la morte per iperlavoro, il «karoshi»; con questo il potere di vita e di morte che il proprietario schiavista esercitava sul lavoratore ritorna all’interno del capitalismo, ma in forma soggettiva, dunque come disponibilità al suicidio del lavoratore a beneficio dell’azienda cui appartiene.

Poiché è l’alienazione estrema di sé che abbandona allo sfruttamento non solo il corpo ma anche l’anima, il toyotismo assume una parvenza paradossalmente soggettiva. È difficile dire se i creatori dell’autonomia scolastica, che spesso, prima di essere funzionari del PCI, erano stati leader rivoluzionari del Sessantotto, si siano ingannati sull’apparenza del soggettivismo oppure l’abbiano usata scientemente per ingannare il «popolo di Sinistra» – entrambe le ipotesi non depongono in loro favore. È un fatto, però, che le procedure in cui la riforma dell’autonomia si è sostanziata siano una copia delle forme del toyotismo. Mentre il fordismo attuò un duro dispotismo sui lavoratori e, nel caso ideale, li rese esecutori del tutto passivi di un mansionario che prescriveva loro con accuratezza ossessiva i gesti e le posture richiesti nella loro postazione lungo la catena di montaggio, il toyotismo, mettendo in opera il sistema di controllo sociale capillare proprio del contesto culturale giapponese, intreccia il coinvolgimento incentivato dei lavoratori nelle decisioni produttive di carattere non strategico con l’ostracismo – cioè con il «mobbing» – dei lavoratori che si allontanano dagli obiettivi concordati. (Cfr. GUIDO VIALE, Tutti in taxi, Milano 1996, pp. 116 sgg.)

Chi è insegnante riconoscerà subito in queste determinazioni le forme in cui è ora inceppata la sua didattica: le riunioni collegiali (consiglio di classe, dipartimento disciplinare, collegio dei docenti) devono determinare di volta in volta obiettivi e metodi vincolanti per i singoli, le programmazioni capillari, che hanno sostituito i programmi, devono consentire lo stretto controllo sociale sulla loro attività. Al toyotismo scolastico italica, invero, mancano ancora l’incentivazione del coinvolgimento (esiste solo per le attività di finto supporto o relative all’«arricchimento formativo», non per la didattica curricolare) e il mobbing; essi sono però previsti dal progetto di privatizzazione della Aprea che vuole portare a compimento l’opera iniziata da Berlinguer.

Nell’analisi che segue della legge istitutiva dell’autonomia scolastica metterò in evidenza come il didatticismo delirante su cui gli insegnanti sono invischiati derivi puntualmente dalle ossessioni toyotistiche dei riformatori. Già da adesso è però possibile pronunciare una valutazione complessiva dell’irruzione toyotista nella scuola: la scuola autonoma e, a maggior ragione, la scuola privatizzata possono allettare la venalità dei docenti oppure atterrirli con la possibilità di essere licenziati; esse li umiliano in una condizione di lavoro alienato. Qualunque operaio dell’industria, sia ottocentesca sia taylorista o toyotista, lavora soltanto per il salario; in ciò consiste la sua alienazione; egli, infatti, non solo riceve meno valore di quello che ha prodotto (questo è il torto minore che gli sia inflitto), ma, non controllando i mezzi di produzione (oppure, nella versione toyotista, controllandoli parzialmente dopo che lui stesso è divenuto mezzo di produzione dell’azienda), gli è estraneo il valore d’uso, quindi il fine dell’economia in sé, se dall’azienda escano mine anti-uomo o protesi per sostituire gli arti dilaniati dalle esplosioni, come pure l’azienda che lo sfrutta non è orientata all’utile umano ma al proprio profitto. – Del tutto differente la condizione naturale dell’insegnante: solo il cattivo insegnante lavora per lo stipendio (in Italia, vista la sua miseria, si tratta di una possibilità da richiamare per amore di completezza teorica; in Italia si lavora nonostante lo stipendio), l’insegnante normale lavora perché gli piace e in vista di un fine di evidente utilità: le maestre in genere adorano stare tra i bambini, i professori adorano appassionare alla materia cui si sono dedicati i giovani loro affidati, la gratitudine degli allievi è il compenso maggiore alle fatiche. Voler estorcere con l’incentivo o con il ricatto toyotista il coinvolgimento degli insegnanti nel loro lavoro, che essi già danno spontaneamente, equivale – si scusi la crudezza dell’immagine – a stuprare chi ci offre il suo amore.

Ogni iniziativa di riforma che eluda la centralità del sapere, che non incoraggi il βίος θεωρητικός nei docenti e nei discenti, comporta il tracollo della scuola. L’economicismo vuole rendere l’istruzione funzionale allo sviluppo capitalistico, perciò preme sui politicanti perché sia privatizzata; ma la scuola privatizzata sarebbe inservibile allo stesso sviluppo capitalistico. Privata della scienza e dell’ideale della ragione critica, piegata alle esigenze dell’addestramento e della ricreatività, essa renderà gli insegnanti incolti e alienati, incapaci di didattica efficace, comunque li si incentivi o li si ricatti.

Prof. Di Remigio Paolo