CONTRIBUTI ALLA CRITICA DELL’AUTONOMIA SCOLASTICA

 

Dobbiamo liberarci dell’autonomia scolastica; essa è stata il primo atto della privatizzazione della scuola. Quando fosse compiuta, lo Stato erogherebbe mezzi finanziari scarsi e legati ai singoli alunni; per superare la soglia di povertà gli istituti dovrebbero chiedere elemosine ai ricchi privati, accoglierli nei loro consigli di amministrazione, arrendersi agli obiettivi dell’azienda capitalistica che esige manodopera flessibile, efficiente e a buon mercato, diventerebbero essi stessi aziende in competizione tra loro per attrarre più studenti, che impiegherebbero insegnanti gerarchizzati e, di nuovo, in competizione tra loro. Il problema più grave non sarebbe però quello già doloroso del differenziarsi delle scuole in ricche e povere, ma il definitivo disprezzo per la sapienza e la saggezza a causa della dipendenza dagli imperativi economici.

L’autonomia deriva dal neoconservatorismo anglosassone, da un disegno semplice, anzi brutale: ricreare la disuguaglianza della società ottocentesca abolendo le tasse pagate dai ricchi, quelle sui profitti, sulle plusvalenze, sui patrimoni, sulle successioni, affinché essi conservino tutta la ricchezza che il meccanismo capitalistico consente loro di accumulare. Mentre col capitalismo imperialistico, ma in particolare dopo la catastrofe economica degli anni ’30, lo stato si impegnò a contrastare la sperequazione sociale generata dal libero mercato riversando indirettamente nei salari parte dei profitti, la reazione neoconservatrice tenta il ritorno all’Ottocento e così taglia i rami dello stato uguagliatore. Essa, a dispetto del nome, è eversiva e non sottolinea i difetti dell’intervento statale per migliorarne l’efficienza, ma per distruggerlo. L’iniziativa privata che lo sostituirà non sarà affatto più efficiente né meno costosa, ma ha due vantaggi essenziali: costituisce occasione di profitto e permette la riduzione della spesa pubblica non diretta al vantaggio immediato dell’oligarchia.

Anche se si è spacciata da preoccupazione per l’andamento dell’economia, il neoconservatorismo difende il mercato non perché creda che il mercato assicuri una economia prospera e immune da crisi, ma perché soltanto un mercato deregolamentato può assicurare la massima disuguaglianza. A differenza che nell’Ottocento, l’avidità degli oligarchi deve però confrontarsi con i meccanismi della democrazia rappresentativa e per vincere le elezioni non si può sbandierare agli elettori il progetto di impoverirne la grande maggioranza; lo deve mascherare con l’ideologia e per evitare che la maschera cada subito, tramite il denaro, deve prendere il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, dei centri di produzione del sapere – compresa la scuola. Da qui il convergere di ogni messaggio autorizzato nella denigrazione di tutto ciò che è statale e la diffusione ossessiva del mito dell’efficienza dell’azienda privata nella sua forma toyotistica.

L’ossequio all’ideologia dominante ha spinto i governi di Sinistra e di Destra a snaturare la scuola omologandola all’azienda toyotistica. Essi hanno fatto apparire ovvio che, producendo automobili con più efficienza del taylorismo, l’azienda a qualità totale dovesse diventare modello dapprima per gli altri settori produttivi, poi per la pubblica amministrazione, infine per la scuola; invece, per dimostrare l’utilità di questa trasposizione, i suoi fautori avrebbero dovuto impegnarsi in un arduo argomentare, avrebbero dovuto rendere evidente l’identità essenziale tra studenti e automobili, tra insegnanti e operai, tra arredo scolastico e macchinario; ma se ne sono ben guardati; si sono limitati ad apostrofare con disprezzo («Ancora le lezioni frontali!») i recalcitranti, quelli che, a loro dire, l’inerzia legava al passato, e hanno pronunciato con entusiasmo visionario le nuove Parole.

Tanta enfasi, che serviva a dissimulare il carattere soltanto ideologico dell’operazione, ha fatto breccia nella coscienza degli insegnanti; pur avvertendo il controsenso della nuova didattica, non l’hanno fronteggiata, ma in parte, pur ribellandosi ai suoi eccessi, vi si sono adattati, in parte hanno sperato che il tempo la logorasse. Poiché è mancato lo smascheramento, ancora oggi, quando la Destra riprende la riforma mettendo in atto con franchezza il toyotismo come lean production e smagrisce il personale scolastico, la Sinistra e i sindacati suoi amici fingono di provare orrore e osano ancora proclamarsi adepti di una favolosa autonomia buona, senza troppi esuberi, osano ancora mostrare di credere, a dispetto dei risultati disastrosi dell’esperimento, che esso avrebbe resuscitato la scuola italiana a nuova vita se solo i loro governi fossero stati più durevoli e, detto tra i denti, gli insegnanti meno riottosi. Così come D’Alema che, interrogato qualche anno fa sui disastri del liberismo, pontificava che ogni problema nasce non dal liberismo in sé, ma dal troppo poco liberismo, i fautori più audaci dell’autonomia scolastica ne parlano come se essa non fosse stata ancora attuata, come se il decesso della scuola non ne fosse l’effetto – anzi, essa ne sarebbe il rimedio. L‘intero ceto politico continua a voler disintossicare la scuola iniettandole l’intera fiala di veleno.

L’inettitudine degli insegnanti italiani a fronteggiare la riforma scolastica è effetto di una cattiva coscienza, che impedisce loro di credere in quello che sono. Da quando il Sessantotto colpì con durezza l’autorità in generale, mostrando la miseria umana e culturale dei baroni universitari abituati a farsi forti del loro ruolo, gli insegnanti hanno smarrito l’essenza del loro lavoro. L’autorità magistrale è diventata sospetta, è dilagato l’individualismo consumistico; la raccomandazione del godimento facile e del conformismo ha diffuso nelle scuole un’ignoranza che si nobilita con un pretenzioso scetticismo «di sinistra»; andando ben oltre Marx, per il quale, pur nella polemica contro la filosofia, ancora si dava una differenza tra scienza e ideologia, lo scetticismo progressista ha dato per ovvio che la cultura fosse espressione del potere e, deprecandolo quanto più lo desiderano, ha trattato con disprezzo la scienza e la filosofia come se fossero soltanto strumenti con cui i tiranni ingannano i popoli. Così la scuola ha, però, segato il ramo su cui poggiava e si è squalificata di fronte agli alunni e alla società.

Se si viola la natura della scuola legandola a concetti economici essa si vendicherà confondendoli; l’istruzione non offre né beni di consumo né mezzi di produzione, ma beni che sono l’uno e l’altro, beni di consumo e insieme mezzi di produzione: da una parte essa esige una disciplina che, prima del formarsi dell’abitudine allo studio, può essere anche dura (si pensi alla fatica dei bambini obbligati a restare seduti e a scrivere), dall’altra, benché siano suscettibili di applicazione, le conoscenze offerte dalla scuola sono fini a se stesse, sono la forma nobilitata degli oggetti nella cui contemplazione si sostanzia la familiarità tra il soggetto e l’oggetto, dunque la felicità dell’uomo. Se, come l’autonomia ha fatto, si stimola la produttività degli istituti scolastici creando loro, tramite gli antecedenti di ciò che nel ddl. Aprea è la “quota capitaria”, l’impellenza di aumentare le iscrizioni, essi ne sono spinti a trasformare in mezzo di consumo immediato, voluttuario, il bene non-economico che dovrebbero offrire; dopo aver abolito il rigore nell’acquisizione delle scienze si umiliano al marketing più ingannevole agghindandosi con le patacche dell’arricchimento formativo. Per questo undici anni di autonomia non potevano non peggiorare le scuole, in particolare quelle superiori; in misura tale che ormai potrebbe essere evidente a tutti che proprio l’imposizione del modello economicistico, invece dell’aumento di «produttività» che si prefiggeva, ha creato un paese dei balocchi, una cuccagna di attività ricreative che, lungi dall’arricchire, vanificano l’istruzione fino a impedire persino l‘apprendimento degli elementi.

Tuttavia una generazione politica vissuta indebitandosi col mito neoconservatore non è in grado di accettare l’evidenza e cercare la giusta strada. La volontà di scaricare altrove il peso della crisi che loro stessi hanno provocato ispira nei privilegiati il bisogno di immiserire il popolo e la missione di disciplinarlo; la disciplina diventa ora la stella polare a cui si orientano i politicanti che li rappresentano. Così, di fronte al disastro della scuola, la disciplina, resa finora superflua dall’espulsione dei contenuti scientifici, resuscita in forma degenerata: non è l’attenzione costante suscitata dall’autorevolezza della scienza, è la coercizione esercitata da un insegnante che continua a restare estraneo alla passione culturale, del quale però sono di nuovo messi a disposizione gli strumenti valutativi come mezzi di ricatto; si continua a trascurare che l’unica via di uscita della scuola è il rilancio della figura dell’insegnante attraverso la sua promozione scientifica: la sapienza  è una delle forme più alte di realizzazione della vita umana; la sua desiderabilità rende naturalmente autorevole chi la possiede e spinge ad accettare la disciplina necessaria per ottenerla.

Che il rimedio al male sia la scienza è evidente dal fatto che la nostra scuola è tanto più inadeguata quanto più elevato il livello di competenza scientifica richiesto ai docenti: se le nostre scuole elementari sono soddisfacenti, le nostre scuole medie mediocri, le nostre scuole superiori cattive, è perché la scienza delle maestre, soprattutto dopo l’introduzione del modulo che la difesa neoconservatrice del privilegio sociale vuole abolire, è sovrabbondante rispetto alla curiosità e alle capacità di apprendere dei piccoli alunni, mentre la scienza dei professori è spesso insufficiente a fermare l’attenzione e a stimolare l’interesse degli adolescenti così che si dispongano all’autodisciplina. Viceversa, gli insegnanti che, a dispetto del degrado delle università che spesso li hanno laureati senza istruirli e del livello culturale della società martoriata dalle televisioni, hanno acquisito scienza, rappresentano le sole oasi di didattica autentica che contrastino l’annientamento della scuola italiana.

Il motivo della scienza come fondamento di credibilità della scuola non era estraneo alla riforma dell’autonomia scolastica; essa ha però, come le Arpie, la poco invidiabile capacità di insozzare tutto ciò che tocca: vuole restituire autorevolezza all’insegnante non pretendendo da lui la sapienza che educa, ma facendone un tecno-scienziato dell’educazione, una figura oscillante tra l’addestratore e l’animatore. Essa ha esasperato i lati più inquietanti dei motivi più ambigui emersi negli anni della contestazione giovanile; se questa aveva lottato contro l’onnipotenza degli insegnanti, l’autonomia li umilia perché li rende esecutori nelle classi di decisioni collegiali dipendenti a loro volta da strategie centrali inappellabili, perché li riduce a somministratori di pretesi algoritmi didattici, perché li carica di faticosi adempimenti burocratici utili soltanto a esporli al formalismo dei contenziosi legali, perché li spinge alla cinica réclame del loro istituto, perché li costringerà agli avanzamenti di carriera ­­“contingentati“.

In questo contesto l’eredità più preziosa di Don Milani, valorizzata dal Sessantotto e penetrata nella stessa scuola dell’autonomia, l’idea che la scuola pubblica ha il dovere elementare di educare tutti, non limitarsi a constatare l’attitudine allo studio di alcuni e l’inettitudine di altri, a promuovere chi segue e a bocciare chi non segue, è sperperata nel momento in cui non è rimasto più nulla da seguire e agli alunni non è stata più richiesta l’applicazione di alcuna attitudine. Così si spalanca la porta alla restaurazione della scuola classista sempre aperta nei sogni neoconservatori.

La  scuola dell’autonomia ha dimenticato la critica del «nozionismo», come nel Sessantotto si chiamò la conoscenza senza spessore scientifico, limitata al semplice «che», priva di un «perché» la cui universalità coinvolga il soggetto dell’apprendimento, e ne impone una forma particolarmente brutale quando, esigendo che i risultati ottenuti dagli alunni siano misurabili, non semplicemente verificabili, fa dei contenuti scientifici un pretesto per la somministrazione di un test di valutazione. Invece di criticare l’esclusività del manuale scolastico e invitare alla riscoperta del classico e della sua bibliografia, essa rifiuta il libro come tale e concede i suoi favori soltanto alla comunicazione multimediale.

In compenso nella riforma dell’autonomia si è attuato il pericolo potenziale più grave nell’eredità del Sessantotto: il disprezzo per la scienza implicato dall’intolleranza all’autorità. La riforma ha approfittato del deficit di autocoscienza degli insegnanti per farne dei dipendenti d’azienda, ne deprime la dignità e l’iniziativa culturale proprio mentre le proclama. La contraddizione, così sfacciata da paralizzare l’intelligenza, si è nascosta perché negli anni Novanta l’azienda è mutata e la nuova forma è stata mistificata dalla propaganda. L’organizzazione taylorista del lavoro è stata soppiantata da quella toyotista e questa, col suo estorcere ai lavoratori non solo il loro tempo ma la loro anima per la qualità totale del prodotto (è questo il senso ultimo della «flessibilità»), ha dato una rappresentazione di sé come coinvolgimento della soggettività, quindi come superamento dell’alienazione implicata nel dispotismo taylorista. Ormai è invece evidente che il toyotismo, proprio perché assorbe integralmente la soggettività dei lavoratori ferma restando la loro separazione dai mezzi di produzione, è una forma intermedia tra lavoro salariato e lavoro schiavistico: del lavoro salariato ha la libertà del lavoratore come persona che vende con un contratto la sua forza-lavoro, dello schiavismo ha la sua riduzione integrale a strumento di lavoro; la contraddizione tra libertà e disponibilità totale alle esigenze aziendali si dà la forma per cui il lavoratore toyotista vuole essere soltanto macchina creativa della sua azienda.

L’annullarsi della differenza taylorista tra tempo di lavoro e tempo libero, tra prestazione lavorativa e personalità, in quanto non è imposto dalla violenza diretta come nello schiavismo, ma da condizionamenti indiretti che interiorizzano come dovere morale l’asservimento della personalità agli obiettivi aziendali, ha come esito possibile la morte per iperlavoro, il «karoshi»; con questo il potere di vita e di morte che il proprietario schiavista esercitava sul lavoratore ritorna all’interno del capitalismo, ma in forma soggettiva, dunque come disponibilità al suicidio del lavoratore a beneficio dell’azienda cui appartiene.

Poiché è l’alienazione estrema di sé che abbandona allo sfruttamento non solo il corpo ma anche l’anima, il toyotismo assume una parvenza paradossalmente soggettiva. È difficile dire se i creatori dell’autonomia scolastica, che spesso, prima di essere funzionari del PCI, erano stati leader rivoluzionari del Sessantotto, si siano ingannati sull’apparenza del soggettivismo oppure l’abbiano usata scientemente per ingannare il «popolo di Sinistra» – entrambe le ipotesi non depongono in loro favore. È un fatto, però, che le procedure in cui la riforma dell’autonomia si è sostanziata siano una copia delle forme del toyotismo. Mentre il fordismo attuò un duro dispotismo sui lavoratori e, nel caso ideale, li rese esecutori del tutto passivi di un mansionario che prescriveva loro con accuratezza ossessiva i gesti e le posture richiesti nella loro postazione lungo la catena di montaggio, il toyotismo, mettendo in opera il sistema di controllo sociale capillare proprio del contesto culturale giapponese, intreccia il coinvolgimento incentivato dei lavoratori nelle decisioni produttive di carattere non strategico con l’ostracismo – cioè con il «mobbing» – dei lavoratori che si allontanano dagli obiettivi concordati. (Cfr. GUIDO VIALE, Tutti in taxi, Milano 1996, pp. 116 sgg.)

Chi è insegnante riconoscerà subito in queste determinazioni le forme in cui è ora inceppata la sua didattica: le riunioni collegiali (consiglio di classe, dipartimento disciplinare, collegio dei docenti) devono determinare di volta in volta obiettivi e metodi vincolanti per i singoli, le programmazioni capillari, che hanno sostituito i programmi, devono consentire lo stretto controllo sociale sulla loro attività. Al toyotismo scolastico italico, invero, mancano ancora l’incentivazione del coinvolgimento (esiste solo per le attività di finto supporto o relative all’«arricchimento formativo», non per la didattica curricolare) e il mobbing; essi sono però previsti dal progetto di privatizzazione della Aprea che vuole portare a compimento l’opera iniziata da Berlinguer.

Nell’analisi che segue della legge istitutiva dell’autonomia scolastica metterò in evidenza come il didatticismo delirante su cui gli insegnanti sono invischiati derivi puntualmente dalle ossessioni toyotistiche dei riformatori. Già da adesso è però possibile pronunciare una valutazione complessiva dell’irruzione toyotista nella scuola: la scuola autonoma e, a maggior ragione, la scuola privatizzata possono allettare la venalità dei docenti oppure atterrirli con la possibilità di essere licenziati; esse li umiliano in una condizione di lavoro alienato. – Qualunque operaio dell’industria, sia ottocentesca sia taylorista o toyotista, lavora soltanto per il salario; in ciò consiste la sua alienazione; egli, infatti, non solo riceve meno valore di quello che ha prodotto (questo è il torto minore che gli sia inflitto), ma, non controllando i mezzi di produzione (oppure, nella versione toyotista, controllandoli parzialmente dopo che lui stesso è divenuto mezzo di produzione dell’azienda), gli è estraneo il valore d’uso, cioè il fine in sé dell’economia, se dall’azienda escano mine anti-uomo o protesi per sostituire gli arti dilaniati, come pure l’azienda che lo sfrutta non è orientata all’utile umano ma al proprio profitto. Del tutto differente la condizione naturale dell’insegnante: solo il cattivo insegnante lavora per lo stipendio (in Italia, vista la sua miseria, si tratta di una possibilità da richiamare per amore di completezza teorica; in Italia si lavora nonostante lo stipendio), l’insegnante normale lavora perché gli piace e in vista di un fine di evidente utilità: le maestre in genere adorano stare tra i bambini, i professori adorano appassionare alla materia cui si sono dedicati i giovani loro affidati, la gratitudine degli allievi è il compenso maggiore alle fatiche. Voler estorcere con l’incentivo o con il ricatto toyotista il coinvolgimento degli insegnanti nel loro lavoro, che essi già danno spontaneamente, equivale – si scusi la crudezza dell’immagine – a stuprare chi ci offre il suo amore.

Ogni iniziativa di riforma che eluda la centralità del sapere, che non incoraggi il βίος θεωρητικός nei docenti e nei discenti, comporta il tracollo della scuola. Il neoconservatorismo vuole rendere l’istruzione funzionale allo sviluppo capitalistico, perciò preme sui politicanti perché sia privatizzata; ma la scuola privatizzata sarebbe inservibile allo stesso sviluppo capitalistico. Privata della scienza e dell’ideale della ragione critica, piegata alle esigenze dell’addestramento e della ricreatività, essa renderà gli insegnanti incolti e alienati, incapaci di didattica efficace, comunque li si incentivi o li si ricatti.


 

L’autonomia scolastica inizia dall’articolo 21 della legge n. 59 del 1977 e potrebbe terminare con l’approvazione del ddl. Aprea; proprio perché vuole essere una riforma complessiva ma si limita a toccare questioni organizzative e burocratiche e non giunge alla determinazione dei contenuti scientifici che costituiscono il nucleo della didattica, si presenta come una iniziativa eversiva della scuola pubblica; più che una riforma, che presupporrebbe un avvenuto esame dei difetti dell’esistente di cui sarebbe la cauta correzione, è in effetti una rivoluzione che considera la scuola un rifiuto da buttare e da sostituire con qualcosa di nuovo e inaudito. Questo nuovo e inaudito, la cui profonda estraneità alla scuola è occultata da un linguaggio libertario, che civetta con gli slogan del Sessantotto, è appunto l’assenza del contenuto, il pensiero che la didattica non sia vincolata a una sostanza scientifica in senso ampio, ma sia un organizzare un pretesto ad libitum.

Indice dell’atteggiamento eversivo è già il fatto che l’autonomia scolastica non sia stata emanata da sola, come legge della scuola, ma sia soltanto un articolo di una legge di riforma della pubblica amministrazione, che conferisce funzioni e compiti agli enti locali: l’innalzare la scuola all’autonomia è stato nel contempo l’umiliarla a ente locale, squalificarla in nodo della rete amministrativa. Così, poiché l’autonomia fa parte di una legge sulla burocrazia, non c’è nulla di strano che gli insegnanti l’abbiano vissuta innanzitutto come un appesantimento burocratico di quello che già facevano: mentre prima, se si preoccupavano, si preoccupavano dei problemi scientifici e relazionali lasciando che l’abitudine o il caso risolvesse i piccoli problemi esterni e senza darsi pensiero delle condizioni costanti, poi hanno dovuto dare un paludamento amministrativo alla totalità delle loro azioni. Come in ogni documento bisogna ripetere luogo e data di nascita, così gli insegnanti ogni anno devono redigere, inzeppandoli di chiacchiere che nessuno avrà il coraggio di leggere se non, in caso di contenzioso, gli avvocati, un Piano di Offerta Formativa (POF), una programmazione di dipartimento, una programmazione del Consiglio di classe e una personale, come se ogni anno non solo tutto quello che fanno, ma la stessa conservazione della scuola fosse una decisione problematica; devono allegare a ogni valutazione una griglia di valutazione, come se questa fosse garanzia di correzione generosa e di valutazione oggettiva. La portata libertaria di questi adempimenti consisterebbe nel fatto che prima l’organizzazione era prescritta dallo stato centrale, tirannico e burocratico, ora invece è la scuola che si dà le regole; in realtà prima lo stato centrale non organizzava proprio nulla perché il nulla non ha bisogno di essere organizzato, ora invece nasce un organizzare il cui carattere autonomo non compensa in nessuna misura la persistenza della sua inutilità. La burocratizzazione, cioè il dover allegare un documento per ogni inezia, era incombente dacché proprio il primo comma dell’articolo scaricava le funzioni dell’amministrazione centrale e periferiche alle istituzioni scolastiche, estendendo a tutte quella personalità giuridica fino ad allora privilegio non ancora invidiato degli istituti tecnici, professionali e d’arte.

Il comma 8 elenca i fini dell’autonomia; non consolidamento scientifico, ma «flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio scolastico». È notevole non solo l’ebbrezza toyotistica che detta le parole, ma anche che la scuola sia umiliata a servizio. «Scuola», però, significa altro; già la sua etimologia la fa discendere da σχολή, otium, e ciò la rimanda all’ambito del βίος θεωρητικός, della vita contemplativa in cui la persona si eleva dall’angustamente utilitario e dai limiti della sua soggettività alla conoscenza universale della natura delle cose – si eleva alla scienza. Nel regalarle l’autonomia il legislatore ha squalificato la scuola e la persona: la scuola da ambito in cui l’uomo si avvia a conoscere la verità delle cose diventa una fornitura di conoscenze, competenze, capacità non fini a se stesse e dunque non suscettibili di trasformarsi in elementi organici della personalità matura, ma utili forse alla carriera e, più ancora, alla competitività delle aziende; la persona diventa funzione del negotium, suo ma, più ancora, di quello aziendale, e la sua realizzazione umana è privata della virtù della sapienza. In obbedienza all’impulso neoconservatore, «servizio scolastico» fa diventare mezzo ciò che è fine, fa diventare l’uomo un produttore e consumatore di merce che non svilupperà curiosità intelligente di conoscere le strutture universali della realtà, ma, che per assicurare più ricchezza ai ricchi, dovrà rinunciare alla σοφία che sostanzierebbe la sua felicità e la sua nobiltà.

Una volta che il testo della legge è inciampato sul termine «servizio scolastico», non c’è più argine al dilagare del toyotismo: il servizio scolastico deve essere «flessibile e diversificato»; non deve offrire l’ottimo, cioè le regole della grammatica, i teoremi della matematica, le leggi della fisica, l’Odissea e la Fenomenologia dello spirito; no, deve offrire di tutto e in qualunque modo. Così, quando aggiunge che il «servizio» deve essere efficiente ed efficace, poiché è impossibile la scuola se non vi si insegna l’eccellente, dunque se non si discrimina tra cultura e spazzatura della comunicazione di massa, il legislatore indica un obiettivo di cui ha appena posto le condizioni di impossibilità. Se deve offrire di tutto, la scuola, come un rotocalco, fa dell’eccellente un elemento della varietà comunicativa e, impotente a scalfire la superficialità che proprio il semplicemente comunicativo evoca nel fruitore, lo rende inafferrabile, tradendo la propria ragione d’essere.

Il secondo fine dell’autonomia, l’«integrazione e il miglior utilizzo delle risorse e delle strutture», ha senso soltanto negli istituti tecnici e professionali che sono dotati di laboratori; esso implica, in ogni modo, che i laboratori si diffondano ovunque e, in seguito, non pochi fautori dell’autonomia hanno imputato il suo fallimento all’avarizia dei governi dell’altro schieramento nell’erogare le risorse. Al di là di questa accusa, si dà per ovvio che solo la cosiddetta didattica «laboratoriale» sia valida e non si riflette sul suo limite costitutivo: il laboratorio produce soltanto esempi della teoria, che sono tali, e non eventi casuali, soltanto per chi conosce la teoria; ma nel processo di apprendimento gli esempi sono un aiuto a capire, non possono certo sostituirlo. Nell’esempio gli elementi delle cose da capire si presentano fusi insieme, concreti; soltanto nella teoria, tramite la sua linguisticità, sono così separati, astratti, che la loro unità si fa conoscere come necessità; senza astrazione non c’è, dunque, necessità e senza necessità non c’è né pensiero né scienza. L’insistenza sul laboratorio, sulle risorse e sulle strutture, nasce dalla grettezza di credere possibile la scienza senza pensiero, dall’intenderla come pratica esecutiva che non comprende quello che fa. La scuola non ha mai sentito questo bisogno incontenibile di risorse e di strutture; ossia le vere risorse della scuola sono la competenza scientifica degli insegnanti, il loro amore per la scienza, il loro voler bene alla gioventù; le strutture della scuola sono quelle umili che da sempre consentono di elevarsi all’astrazione: aule con muri veri per trovare concentrazione, gesso, lavagna, penne, matite, quaderni, libri – magari una biblioteca –, insomma tutto quanto è necessario a coltivare l’aspetto linguistico o, meglio, scritturale della realtà. L’utilità didattica del computer, vera ossessione degli ultimi vent’anni, è, per dirla in modo sommesso, discutibile in quanto esso è un mezzo di informazione e di comunicazione: la scuola non informa gli alunni; il lavoro di ricerca e di selezione delle informazioni non ha nulla a che fare con il lavoro di comprensione delle teorie.

Il terzo fine dell’autonomia, «l’introduzione di tecnologie innovative» (l’espressione è ridondante: la tecnologia è la tecnica innovata di continuo dalla scienza) è, dunque, così estraneo alla natura della scuola che induce a riflettere sulla coscienza empirica del legislatore: una vita che attraversa identità sempre nuove (prima membro di gruppi pseudo-rivoluzionari che sognano la distruzione del vecchio ordine politico, poi funzionario di partito, poi funzionario dell’amministrazione pubblica che mette i suoi impulsi distruttivi a disposizione del credo neoconservatore) lo ha privato di principi e di senso della realtà; così, invece di raccomandare la tecnologia agli imprenditori, che in Italia sanno fare profitti soltanto abbassando il costo del lavoro senza elevarne la produttività, la impone alla scuola, sebbene l’uso della tecnologia non abbia nulla di educativo: se i nostri padri erano ancora in grado di riparare l’auto in panne o la radio guasta, oggi non vi riescono neanche i tecnici, che si limitano a cambiare l’intero componente. La tecnologia è diventata esoterica; per penetrarla e non limitarsi al clic del mouse occorre appunto quella preparazione scientifica di cui la riforma dell’autonomia ignora il valore.

«Tecnologia», peraltro, più che un concetto, appare una parola magica, ambigua come tutto ciò che è magico; può anche significare tecnologia dell’insegnamento; e in effetti la legge sull’autonomia ha contagiato a tutta la scuola la malattia di dare una bardatura tecnologica alle operazioni didattiche più accessorie o, peggio, di corrompere quelle essenziali costringendole in una forma estranea. Sulla spinta dell’ossessione tecnologica la docimologia ha fatto irruzione nella pratica della valutazione didattica e l’ha snaturata. In realtà la docimologia è al suo posto soltanto nei concorsi; infatti manca loro la finalità educativa nei confronti dei candidati, devono soltanto accertare chi è più bravo, non devono farlo diventare più bravo. Il concorso è dunque una selezione in base al merito che una commissione di esperti, estranei ai candidati, misura con prove il più possibile impersonali; l’impersonalità della misurazione è qui il criterio che induce a somministrare prove strutturate, come i test a crocette, piuttosto che la svolgimento libero di un tema; se è ben redatto, se non verte soltanto sull’informazione ma può essere risolto anche con la riflessione, il test offre ai candidati maggiori garanzie di valutazione oggettiva rispetto allo svolgimento libero, perché li mette al riparo dai gusti e dagli umori della commissione esaminante; questa, infatti, non corregge, ma misura la correttezza delle risposte. Il feticcio della tecnologia e il mito neoconservatore della competitività hanno talmente accecato la scuola autonoma che questa si confonde con il concorso e trascura che la valutazione didattica non ha nulla a che fare con la valutazione concorsuale: innanzitutto fra gli alunni e gli insegnanti non c’è e non deve esserci estraneità; inoltre non ha alcuna rilevanza didattica misurare con esattezza (in centesimi!) ciò che l’alunno sa fare fino a oggi: la valutazione concerne ciò che gli antichi chiamavano «intelletto attivo» e che in questo momento può essere impacciato e cieco ai contenuti del suo intelletto passivo; può bastare la caduta di un inibizione, la nascita di un interesse, un’intuizione, addirittura una buona dormita, perché l’intelletto passivo diventi disponibile e una valutazione di grave negatività salti in una valutazione positiva beffando i centesimi; infine non ha alcun interesse, anzi è uno sciocco e controproducente incentivare la vanità degli alunni, determinare l’ordine di bravura della classe – come dicono le maestre: «Non è una gara». In definitiva la valutazione ha un valore didattico secondario; serve soltanto a dire all’alunno se ha fatto abbastanza o se deve fare di più; dunque deve essere grossolana, finalizzata non a classificare, ma a stimolare a uno sforzo ulteriore; soprattutto non deve impacciare il ritmo autentico dell’azione didattica. Esso è fatto di spiegazione, esercitazione prima guidata poi autonoma, correzione accurata delle esercitazioni. L’alunno impara producendo; solo esercitandosi fa sue le spiegazioni; la correzione, se non è disturbata dall’interesse per il voto, è il momento individualizzante dell’insegnamento, in cui emergono i punti di forza e le insufficienze dell’alunno e il docente può mostrargli i modi per superarle. Poiché sono il cuore della didattica, le prove devono permettere la libera espressione (mentre oggi perfino negli svolgimenti si segue l’assurda usanza di prescrivere il numero massimo di righe), in modo che l’alunno impari a strutturare l’argomentazione e la correzione possa essere l’inizio del superamento dei suoi difetti. In nessun modo sarebbe dovuto accadere che una malintesa e inopportuna preoccupazione per la misura impersonale facesse sostituire con tipi di prova in cui la soggettività dell’alunno si limita alla crocetta o alla scelta della parola da inserire sui puntini, le prove classiche come lo svolgimento del tema che, implicando tutta la personalità dell’alunno e la massima generosità dell’insegnante che deve correggere, è lo strumento principale di ogni didattica. Se si volesse veramente far progredire la scuola bisognerebbe proibire le prove strutturate, introdurre prove scritte in ogni disciplina, regolamentare e riconoscere economicamente il lavoro di correzione. Viceversa, le griglie di valutazione, al cui uso può corrispondere addirittura la mancata correzione dell’elaborato, sono il simbolo del degrado della scuola autonoma che per l’ossessione della misura trascura l’oggetto che vuole misurare.

«La scuola dell’autonomia ha il fine di coordinarsi con il contesto territoriale». La scuola, però, ha per fine la sapienza: l’intelligenza dei principi delle scienze e l’abilità nel dimostrare; deve innalzare la gioventù a operare con l’astratto; dunque non una preoccupazione autenticamente didattica, ma il fantasma del neoconservatorismo genera nella mente del legislatore la sopravvalutazione del legame col territorio. Il neoconservatorismo della scuola autonoma finge preoccupazione per il futuro occupazionale dei giovani, proprio mentre li abbandona alla durezza del meccanismo di mercato tradendoli allo sviluppo capitalistico, indifferente al fatto che la sua cecità esige non tanto accortezza e adattamento, quanto saggezza, menti capaci non solo (come si dice volgarmente) di cogliere le opportunità ma di stornare le pulsioni distruttive del mercato autonomo. È dunque impensabile restringere lo sguardo della gioventù finalizzandolo al territorio, anche quando questo fosse una città pregna di storia e di cultura. La padronanza delle scienze, che non solo non esclude ma è la condizione prima dell’efficacia dell’azione nei contesti, è il fine della scuola e non tollera dilazioni legate al particolare. La scuola non deve finalizzarsi al territorio, è invece il territorio che deve offrire agganci di vivibilità alla gioventù; la scuola non deve occuparsi dell’inserimento dei giovani nell’economia, è l’economia che deve offrire loro opportunità e, come accade negli altri paesi, provvedere alla loro formazione professionale. Peraltro un contatto precoce col territorio metterebbe i nostri giovani a contatto non con il capitalismo da manuale in cui Berlinguer si sforzava di credere, ma con un contesto ecologicamente degradato e in preda all’illegalità, che porrebbe spesso la scelta tra un ipocrita non vedere e la ribellione – e non è opportuno costringere gli alunni in questa alternativa.

«L’autonomia supera l’ora da sessanta minuti, il gruppo classe, impiega i docenti in modo da ottimizzare le risorse». L’espressione raccapricciante «impiega i docenti così da ottimizzare le risorse» rivela che la scuola autonoma è l’incubo di un’azienda toyotistica in cui i docenti sono bestiame da lavoro. I riformatori scolastici hanno chiamato «autonomia» il degrado del lavoro scolastico, fingendo che venisse a redimere un medioevo di fordismo tirannico e burocratico; invece i lavoratori della scuola non sono mai stati dipendenti che lavorano per un salario; la Costituzione garantiva la libertà di insegnamento. Proprio l’autonomia ha conculcato la libertà di insegnamento gravandola di obblighi estrinseci. Dieci anni di applicazione della riforma hanno mostrato che l’impiego flessibile dei docenti equivale al sabotaggio dell’azione didattica. Se spazio, tempo, strumenti, materiali, condizioni iniziali, obiettivi, modi di verifica, criteri di valutazione diventano un problema che si ripropone ogni mese, che bisogna risolvere come se fosse la prima volta, l’azione didattica vera e propria non inizia mai, i nodi veri che pone non vengono mai al pettine, men che mai risolti. Di fronte alla difficoltà che il docente affronta per rendere significativo l’incontro degli alunni con un filosofo, dichiarare tempi e luoghi della didattica è ridicola pedanteria, a cui gli insegnanti resistono solo perché ricorrono al copia e incolla, cui non si ribellano perché ancora non capiscono che non si tratta del risultato di una lunga e geniale sperimentazione didattica, ma dell’imitazione forzata di un diktat ideologico. Poiché insegnare contenuti scientifici implica attenzione e concentrazione, cioè l’oblio del luogo e del tempo, poiché è dunque possibile che una digressione occupi tutto il tempo che dapprima era destinato al tema principale, la flessibilità che l’autonomia ha imposto alla scuola e che può forse essere tale per il lavoro alienato di fabbrica, nella scuola è in realtà una cappa di piombo sulla sua flessibilità innata. Questa è totale fino all’imprevedibilità, essendo determinata dall’umore degli alunni e dei docenti rispetto al contenuto scientifico da affrontare. Poiché nel rapporto tra gli alunni e la scienza la didattica ha sempre osservato una flessibilità naturale, il «superamento» della lezione da sessanta minuti introduce una flessibilità artificiale che forse sarà congeniale alla fabbrica toyotista, ma che nella scuola può solo impedire il formarsi dell’abitudine; ne è disturbato l’oblio del luogo e del tempo, la concentrazione diventa più difficile, addirittura impossibile se con la fine della stabilità del gruppo classe viene meno l’abitudine al rapporto di fiducia tra insegnanti e alunni e alunni e alunni. La trasmigrazione degli alunni da un’aula all’altra, oppure dalla scuola al teatro, rende inoperante la sequenza spiegazione-produzione-verifica, porta a eludere lo sforzo del cresce intellettuale in una girandola di attività disperse se non ludiche, deprime la significatività delle relazioni tra le persone.

«L’autonomia didattica rispetta la libertà di scelta da parte delle famiglie» – ma, a parte la scelta dell’istituto, sotto certi limiti, della classe, di cambiarla in caso di incompatibilità, di avvalersi o meno dell’insegnante di religione cattolica (scelta dovuta a difetto di laicità dello stato italiano), non esiste nessuna libertà di scelta delle famiglie né queste l’hanno mai invocata. Alle famiglie è sufficiente che i loro figli incontrino docenti preparati ed equilibrati. La legge spende inchiostro su questo punto perché ha aspirato il fumo del neoconservatorismo e della sua lotta allo stato sociale e di questa lotta fa parte l’accusa fatua che lo stato centralizzato non può offrire la varietà di servizi che il capriccio dei consumatori desidera – lo stesso toyotismo non è soltanto un sistema di produzione, ma anche un sistema di vendita che rileva e scheda accuratamente sogni e bisogni dei clienti e permette loro di avere in pochi giorni l’auto con tutte e solo le caratteristiche desiderate. Quanto a questo secondo rimando, che una famiglia voglia il figlio ingegnere chimico con un certo amore per il jazz, un mediocre interesse per le farfalle e il pallino dell’etruscologia, è così frivolo, così idiota che sarebbe motivo sufficiente per toglierle la patria potestà sul suo sfortunato figliolo. Mandare il figlio a scuola significa per i genitori la rinuncia al controllo totale che esercitavano su di lui quando era piccolo, in vista della sua completa indipendenza. In «mio figlio» e in «mia automobile» il possessivo non ha lo stesso significato; benché nell’Italia del lavoro precario sia sempre più difficile, il figlio, a differenza dell’auto, aspira a una vita autonoma. – Più importante è il rimando della legge all’ideologia neoconservatrice. Che la legge indulga ad assicurare libertà inesistenti insinua il sospetto, confermato dal suo esito nel ddl. Aprea, che a certe famiglie si volesse assicurare la scelta tra quella che è ancora scuola pubblica e scuola confessionale. Poiché la scuola pubblica ha il privilegio di portare impressa nella sua essenza la laicità, cioè il riconoscimento del primato della ragione, di cui la scuola confessionale è priva, la legge dell’autonomia la umilia e umilia la ragione trattandola non come fondamento e vincolo delle scelte ma come scelta tra le altre. La legge dell’autonomia scolastica ha fatto, cioè, della scienza una fede – non senza coerenza la Moratti pretese che a scuola si insegnasse il creazionismo.

«L’autonomia didattica si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento … e in ogni iniziativa che sia espressione di libertà progettuale compresa l’eventuale offerta di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi…». «Potete fare di tutto e come vi piace», dice la legge alle scuole, «l’importante è che lo programmiate». Questa libertà è frutto di un incontro sciagurato tra deregolamentazione, pesantezza burocratica e spirito del Sessantotto. Se una legge esce dal cranio di un ex-sessantottino che ancora risuona del «Proibito proibire!» e di fronte alla deregulation è rapito da un déjà vu, allora la libera scelta diventa un’imposizione legale; se poi è diventato un burocrate l’ex-sessantottino avverte l’esigenza del cartaceo. Così l’arbitrio progettuale è diventato il nucleo della scuola italiana e ne è uscito umiliato l’insegnamento curricolare rivolto a insegnare i contenuti scientifici attraverso la spiegazione, le verifiche e la correzione. Tacciandola di inerzia culturale e didattica, l’arbitrio progettuale incentivato ostacola la didattica curricolare imponendo iniziative spesso ai limiti dell’insulsaggine, ma in grado di diminuire il tempo scuola effettivo e di rompere la continuità.

In questa tempesta d’arbitrio le istituzioni scolastiche devono trovare il tempo e la voglia per fare, come le grandi aziende, ricerca, sperimentazione e sviluppo. Difficile capire in cosa si traduca «sviluppo» a scuola; più facile capire le implicazioni della forzatura aziendalistica nel caso della sperimentazione: la sperimentazione implica cavie; poiché hanno una sola giovinezza, i nostri alunni non dovrebbero sacrificarla alla «sperimentazione» scolastica; dunque la sperimentazione a scuola è moralmente consentita soltanto ai margini dell’insegnamento. La sperimentazione avventata, quale quella raccomandata dalla legge, priva com’era di ipotesi ben formulate da mettere alla prova perché se ne verificasse la validità e la falsità, era in realtà un invito a un cinico avventurismo, a una ricerca del nuovo in quanto tale, incapacità di rapporto critico con la realtà, paralisi della sperimentazione naturale che bisogna porre in atto per risolvere i problemi della complessità dei rapporti con gli alunni. L’impostazione pseudo-tecnologica dell’autonomia, la finzione della ricerca-sperimentazione-sviluppo, ignora che la scuola è finalizzata al capire e le fa scimmiottare la prassi aziendale, che da parte sua non è volta alla produzione del nuovo né del meglio, come afferma la sua propaganda, ma, per lo più, a far apparire obsoleto ciò che è ancora funzionale, perché finisca in discarica prima del tempo e si tengano aperti gli sbocchi di mercato. L’avventurismo didattico ha paralizzato l’approfondimento dei contenuti scientifici da parte degli insegnanti. La scienza è difficile e ampia; se anche le università italiane fossero eccellenti e laureassero giovani preparatissimi, ogni insegnante sarebbe comunque chiamato a dare consistenza monografica alle sue aree di conoscenza manualistica. Soltanto chi continua a imparare conserva la capacità e il diritto di insegnare. Il lavoro interminabile per consolidare e approfondire la scienza insegnata (lavoro a cui sono tenuti tutti gli insegnanti: il livello miserabile della letteratura per ragazzi contenuto nelle antologie delle scuole dell’obbligo manifesta non solo estraneità alla cultura ma anche irresponsabilità professionale) nella scuola dell’autonomia è diventato superfluo – i suoi fautori ripetevano che gli insegnanti italiani sapevano già troppo e raccomandavano, coerenti alla loro mentalità eversiva, l’aggiornamento sulle tecnologie didattiche.

Il ddl Aprea «… rappresenta una legge generale di principi che rispetta, approfondisce e valorizza le norme sull’autonomia organizzativa della… legge n. 59 del 1997, di cui realizza veramente la lettera e lo spirito…» (p. 2). E in effetti la privatizzazione della scuola, che l’on. Aprea chiama all’art. 2 «trasformazione delle istituzioni scolastiche in fondazioni», era non solo l’atmosfera generale in cui aleggiavano le novità della legge sull’autonomia, ma appariva a tutto tondo al suo comma  9, dove si poteva già leggere che «l’autonomia persegue gli obiettivi del sistema nazionale d’istruzione». Il «sistema nazionale d’istruzione» non è la scuola laica che lo stato offre a tutti, è una rete toyotistica di aziende che attraverso una inebriante innovazione competono tra loro per catturare clienti. La legge sulla parità scolastica, emanata dallo stesso Berlinguer, assicurò che del «sistema» facessero parte allo stesso titolo quelle che erano ancora scuole pubbliche e le scuole private. Le contraddizioni contenute nel concetto di «sistema nazionale dell’istruzione», ancora invisibili nella legge 59/1997, che si limitava a nominarlo, emergono senza pietà quando il ddl Aprea ne «realizza veramente la lettera e lo spirito». La prima di queste contraddizioni consiste nel dichiarare pubblico ciò che non è pubblico. Col «sistema», scrive l’on. Aprea a p. 3, lo stato cessa di essere fornitore di servizi scolastici e, in armonia col credo neoconservatore, si limita ad esserne il committente. Lo stato italiano è, però, vincolato dalla sua Costituzione, che determina il carattere pubblico della scuola garantendo la libertà di insegnamento al singolo docente; non può dunque diventare committente di servizi a istituti che, in quanto privati, non danno tale garanzia. La stessa on. Aprea non sembra del tutto consapevole dell’essenza contraddittoria e anticostituzionale dell’intera operazione autonomia quando per un rigurgito democratico, all’art.1, stabilisce che il POF «è comprensivo delle diverse opzioni eventualmente espresse da singoli o da gruppi di insegnanti nell’ambito della libertà d’insegnamento»; le sfugge quell’incompatibilità tra autonomia dell’istituto rispetto allo stato costituzionale e libertà del singolo docente per cui, attenendosi alla prima, le scuole confessionali vorranno conservare il diritto di allontanare insegnanti eterodossi. Poiché è possibile soltanto sulla base dello spirito intollerante dell’autonomia scolastica – che è autonomia dell’istituto dallo stato democratico e al tempo stesso restrizione della libertà d’insegnamento del singolo –, il «sistema» non tollera lo scrupolo dell’on. Aprea, ossia è incompatibile con la Costituzione e garantisce libertà – quella dell’istituto privato e quella d’insegnamento – incompatibili tra loro.

Il rinnegamento della costituzione, proprio dell’autonomia e del ddl Aprea, è inoltre connesso all’apertura delle scuole, alla loro permeabilità e dunque alla loro dipendenza dalle risorse esterne. Le scuole si trasformano in «fondazioni» – un nome giuridicamente assurdo, dal momento che il patrimonio che esse gestirebbero è di origine pubblica, non privata, come la nozione di «fondazione» implica – per acquisire «partner pubblici e privati che le sostengano, disposti a entrare nell’organo di governo della scuola e che contribuiscano a innalzare gli standard di competenza dei singoli studenti e di qualità complessiva dell’istituzione scolastica. In altre parole i partner che la scuola riconosce dovranno favorire il processo di innovazione. Attraverso la trasformazione in fondazioni si vuole anche favorire una maggiore libertà di educazione che poggia sulla natura sociale dell’educazione [sic!]: un’opera da svolgere entro quella società civile e quegli enti pubblici e privati più vicini ai cittadini, che devono essere riconosciuti a pieno diritto come espressioni dell’azione pubblica» (pp. 2-3). Un po’ perché si vergognano, un po’ perché devono mascherarsi, è naturale che le cattive intenzioni si esprimano in modo prolisso e contorto. Fra le righe che ripetono senza imbarazzi i luoghi più triti dell’ideologia neoconservatrice, si capisce che la scuola pubblica deve essere uccisa e smembrata; le sue parti cadranno sotto il controllo delle regioni, così che risulteranno soddisfatte le aspirazioni della Lega Nord, e sotto il controllo degli industriali, interessati agli istituti tecnici. Il richiamo a una così fumosa, così indeterminata libertà di educazione fa, però, capire che la scomparsa della scuola pubblica è finalizzata soprattutto a permettere una nuova forma di finanziamento che, eludendo la Costituzione, possa giungere alla scuola privata; così risulteranno soddisfatte le aspirazioni della Chiesa cattolica a utilizzare il denaro dei contribuenti per la sua missione apostolica. L’on. Aprea non fa mistero che l’obiettivo ultimo è «riallocare le risorse finanziarie destinate all’istruzione partendo dalla libertà di scelta delle famiglie, secondo il principio che le risorse governative seguono l’alunno» (p. 3); ella lo fissa nel comma 2 dell’art. 11: «… ogni singola regione e provincia autonoma attribuisce le risorse finanziarie pubbliche disponibili alle istituzioni scolastiche accreditate, sulla base del criterio principale della “quota capitaria”, individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritto a ogni istituzione scolastica, tenendo conto del costo medio per alunno…».

La scuola statale deve essere annientata perché, come parte dello stato sociale, non è finalizzata al profitto immediato delle oligarchie e rappresenta un costo da coprire con entrate fiscali. Dunque «la società civile e… [gli] enti pubblici e privati più vicini ai cittadini… devono essere riconosciuti a pieno diritto come espressioni dell’azione pubblica» (p. 3), bisogna cioè cancellare la distinzione tra pubblico e privato. Una distinzione così elementare non può, però, essere abrogata con il voto di una maggioranza di rappresentanti: non per questo svanisce dalla natura delle cose, non per questo si annullano i suoi effetti. Gli enti privati considerano l’utile generale soltanto una condizione da soddisfare per ottenere l’utile proprio; essi fanno riferimento etico alla sola giustizia commutativa, al principio dell’equivalenza nello scambio; gli enti pubblici hanno, invece, per proprio fine esclusivo l’utile generale e sono eticamente vincolati alla giustizia distributiva, devono cioè preoccuparsi che a ciascuno sia dato secondo il suo bisogno; ecco perché, mentre il privato licenzia la lavoratrice gravida e il lavoratore invalido, lo stato, nella misura in cui è tale, protegge la maternità e organizza la previdenza. Che lo stato organizzi la scuola pubblica non ha però la sola rilevanza etica che per suo tramite è stato soddisfatto il principio di giustizia distributiva per cui tutti devono avere accesso all’educazione – come vorrebbe far credere l’on. Aprea che con tono supponente riconosce che la scuola statale «ha certamente prodotto effetti positivi come la scolarizzazione di massa» (p. 3) –, no, ciò che la filantropia, la compassione, lo spirito apostolico, l’interesse materiale dei privati non potrebbero mai garantire, anche se offrissero mille opportunità in più «ai nostri giovani» (p. 3), è la libertà dell’educazione e della cultura. Il privato è definito dall’operare socialmente secondo un interesse proprio; se gli si apre l’accesso ai consigli di amministrazione a cui il ddl. affida il governo delle scuole, questi dovranno tenere conto, piuttosto che del diritto della scienza a svilupparsi secondo il suo principio e del diritto della gioventù ad acquisirla nel suo valore incondizionato, di due specie di interesse privato: del profitto e dell’ideologia. L’interesse al profitto, penetrato nel consiglio di amministrazione, spingerà la scuola a offrire mano d’opera specializzata e a buon mercato; l’interesse all’ideologia vorrà che la scuola rinneghi il suo orientamento alla critica e alla scienza, che si ponga al servizio del dogma. Istituendo la scuola pubblica, la Costituzione ha accomunato l’insegnamento alla scienza, riconoscendo loro la libertà, cioè l’essere fini a se stesse, ed escludendo che fossero asservite al profitto o al proselitismo; dunque la laicità della scuola, come quella dello stato, non è né agnosticismo né ateismo, ma riconoscimento del primato della conoscenza razionale, cioè argomentata criticamente, non dogmatica. Che soltanto la scuola statale possa garantire questo valore supremo è la fonte del suo prestigio rispetto alle istituzioni educative private di qualsiasi specie. Privarsi della scuola statale, dunque laica, nella nostra società oggetto di flussi migratori significa, peraltro, distruggere un importante strumento di diffusione della tolleranza culturale e religiosa e abbandonare la società al settarismo.

Il ddl. propone una fenomenologia avventata dell’insegnante italiano, con delle punte deliranti. Saremmo avviati a una «crisi… dell’offerta di insegnanti; …non ci deve ingannare l’affollamento delle graduatorie», perché, «nonostante i grandi progressi che nel dopoguerra si sono registrati nelle loro condizioni contrattuali e anche retributive» (il corsivo è nostro), gli insegnanti continuano a manifestare uno «stato di frustrazione e di disagio» (p. 4). L’on. Aprea ama illudersi che gli insegnanti siano tutti angosciati perché incerti se il suo splendido «stato giuridico» sarà infine approvato e coronerà le loro aspirazioni; è invece per lo meno probabile che se lo conoscessero, e ne conoscessero i presupposti teorici, sarebbero ancora più depressi e frustrati. C’è poco da essere orgogliosi di condizioni economiche che, «nonostante i grandi progressi», restano, a differenza di quelle dei deputati, vicine all’indigenza, e di far parte di un’istituzione che la congiura dei ceti dirigenti smantella perché non tollera la democrazia e la cultura; ma ci si può sentire addirittura umiliati quando il ddl., come scusa per trasformare le scuole in «fondazioni», attribuisce la capacità di «innalzare gli standard» (art. 2) non alle energie degli insegnanti ritornati consapevoli della centralità didattica della loro competenza scientifica, ma alla benevola partecipazione di partner esterni. Che la scuola possa migliorare mettendosi alle dipendenze dei gruppi privati e dei poteri locali che, in combutta, hanno depredato le risorse pubbliche, è una speranza che solo il neoconservatorismo accecato può nutrire e della cui buona fede è ormai opportuno dubitare. Così come il ddl non si è posto il problema del valore sociale degli interessi dei gruppi privati e dei poteri locali – lo ha dato per scontato –, ora dà ugualmente per scontata la competenza degli estranei sui problemi scolastici. Gli insegnanti lavorano male quando mancano la scienza, l’amore per la scienza e per la gioventù; e certo da quando si è affermata l’autonomia, con la sua sequenza di esigenze estrinseche, lavorano peggio. Quando però le scuole dovranno accogliere l’influenza di «enti pubblici e privati, [di] altre fondazioni, [di] associazioni di genitori o di cittadini, [di] organizzazioni non profit» (art. 2, comma 2), le esigenze estrinseche non potranno che moltiplicarsi e, incidendo sulle fasi iniziali dell’educazione, compromettere l’acquisizione delle stesse abilità elementari.

Quando parla di «partner che… sostengano l’attività» della scuola, l’art. 2 del ddl. non ha bisogno di precisare che il sostegno può essere anche economico, perché già la legge n. 59/1997 al comma 6 aveva abrogato «le disposizioni che prevedono autorizzazioni preventive per l’accettazione di donazioni, eredità e legati da parte delle istituzioni scolastiche». Tanta economia di parole in un testo così spesso prolisso è indizio della prossimità di un punto sensibile. L’autonomia scolastica è una maschera del progetto neoconservatore che distrugge lo stato sociale per interrompere la ridistribuzione sociale del reddito che esso comporta; ridurre la spesa sociale per abolire le tasse sulla ricchezza, lasciare che l’economia di mercato acuita nella sua versione toyotistica operi la sua naturale spoliazione delle masse, sono i suoi fini ultimi. Raccomandando alle scuole di compiacere i ricchi privati per attrarne il denaro, il ddl fa capire alle masse che in ogni caso la goduria è finita, che lo stato, dando per inteso che le scuole si adegueranno alla raccomandazione, ridurrà all’osso il suo finanziamento all’istruzione: l’art. 11 comma 2 già non parla di risorse finanziarie pubbliche adeguate, parla di risorse «disponibili». Le scuole si differenzieranno, dunque, in ricche e povere ( i crolli strutturali degli edifici scolastici illustrano bene cosa significhi in Italia «scuola povera»), secondo la situazione del contesto locale in cui sorgono, secondo la loro utilità a interessi particolari, secondo l’aggressività del loro marketing. Si accentuerà la competizione tra gli istituti; ma essa, al contrario di quanto dicono di credere i fanatici del mercato, non genererà nessun incremento di qualità – al contrario! –, perché non si giocherà certo sul rigore degli studi ma sulla ben più seducente varietà delle distrazioni offerte e sulla scontatezza del successo scolastico.

L’orientamento della scuola al mercato rende ancora più pesanti le contraddizioni contenute nel tentativo del ddl di articolare la carriera degli insegnanti, oltre che sull’anzianità, anche su tre livelli di merito. Nel testo del ddl., nonostante la rarefazione del linguaggio, si avverte subito un odore inconfondibile di nonnismo e spilorceria; infatti chiamare «iniziale», cioè con un aggettivo riferibile soltanto all’anzianità, il primo livello di merito, non è soltanto una sbadataggine: il principio del merito è brutalmente contraddetto dal fatto che chi, per ipotesi, abbia superato brillantemente l’esame di Stato, l’anno di prova e il concorso non può essere subito «esperto» (terzo livello), ma deve sottostare, chissà per quanto, alle valutazioni degli «esperti», prima di poter sperare di accedere al contingente di anime elette.

L’«iniziale» differisce dal secondo livello, quello «ordinario», oltre che per il trattamento economico, anche perché è escluso (art. 17, comma 2) da favolose «funzioni complesse». In questa determinazione si tradisce la mentalità burocratica ed estranea alla realtà della scuola che ispira il ddl; è infatti evidente che l’unica funzione complessa che si esercita nelle scuole è l’attività didattica in classe – attività doppiamente complessa, in quanto concerne i prodotti più sofisticati della mente e in quanto è diretta a personalità in formazione. Escludere gli «iniziali» dalle funzioni complesse, stando al significato che queste parole assumono nella realtà della scuola, comporterebbe piuttosto il metterli in ufficio o in biblioteca o a organizzare gite, aggiornamenti e progetti. Nel ddl si immagina falsamente che la scuola sia come un ministero in cui il lavoro sia ripartito tra impiegati che eseguono e dirigenti che per dirigere devono pensare e assumersi responsabilità e dunque per lo sforzo vanno remunerati di più; invece nelle scuole il dirigente scolastico e quelli che lo contornano sono figure marginali rispetto al vero nucleo dell’attività; averle moltiplicate e valorizzate non è una delle colpe meno gravi della scuola autonoma, non è uno dei motivi meno importanti della sua crisi. Viceversa, che gli insegnati esperti ed eventualmente gli ordinari siano occupati in attività di «formazione iniziale e di aggiornamento permanente degli altri docenti, di coordinamento… di valutazione… di collaborazione» (art. 17 comma 2) contiene una sgradevole conseguenza non avvertita dallo spirito burocratico del ddl. e cioè che la collaborazione alle attività burocratiche costringe a trascurare la didattica. Che ai docenti «esperti» manchino la concentrazione mentale e il tempo necessario a preparare bene le lezioni, porta alla contraddizione che l’avanzamento di carriera per merito si verifica a scapito del merito didattico e alla beffa per cui agli insegnanti che più trascurano il loro dovere principale è attribuita la facoltà di valutare il lavoro degli altri.

Chissà perché, il ddl. prevede inoltre che gli avanzamenti di carriera siano «contingentati» dal governo (art. 17, comma 9); ma il contingentamento contraddice la natura del merito perché l’avanzamento di carriera cui esso dà diritto non porta ad occupare posti disponibili in quantità limitata, costituisce soltanto un «riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata» (art. 17, comma 1). Gli effetti di questa disposizione, in cui si sente di nuovo il tanfo della spilorceria, ricordano la teologia cristiana della salvezza: a dei docenti sarebbe negato senza motivo il riconoscimento meritato, viceversa il riconoscimento dei predestinati sarebbe una grazia del ministero non meno che effetto del loro merito; in definitiva l’avanzamento non sarebbe dovuto tanto al criterio del merito ma ai criteri con cui il ministero elargirebbe la sua grazia.

Delineando il rapporto tra gli insegnanti ripartiti sui tre livelli di merito, il ddl. incorre ancora in un’altra contraddizione: da una parte – nell’art. 10 e nel comma 6 dell’art. 17 – attribuisce agli «esperti» la facoltà di valutare il lavoro degli «iniziali» e degli «ordinari», dall’altra, al comma 1 dell’art. 17, afferma che «l’articolazione [nei tre distinti livelli] non implica sovraordinazione gerarchica». Il ddl. è costretto a questa contraddizione perché deve soddisfare due esigenze legittime da una posizione errata: per un verso il consiglio di classe deve essere composto di insegnanti dello stesso livello affinché gli alunni non siano spinti a fare distinzioni tra le materie, i genitori non rifiutino di iscrivere i loro figli nelle sezioni con troppi «iniziali» e le valutazioni abbiano la stessa dignità; per l’altro verso è opportuno che il lavoro degli insegnanti sia verificato e valutato. L’errore del ddl. – errore grave – è di legare la valutazione del lavoro degli insegnanti con la loro gerarchia. Alla base di questo errore si scorge di nuovo l’allergia all’uguaglianza propria dell’ideologia neoconservatrice; la sua reciproca, la fede nella disuguaglianza, come in economia crede contro ogni evidenza che la sperequazione dei redditi sia la base della prosperità, così in questo contesto fantastica che la scuola possa risorgere attraverso la leadership educativa, attraverso la carriera «fondata… su standard, valutazione, sviluppo, professionalità, specializzazione e responsabilità per i risultati» (p. 5). È però evidente che fra la valutazione del lavoro degli insegnanti e la loro ripartizione gerarchica non c’è alcun legame concettuale. I buoni insegnanti, nonostante soffrano come gli altri l’attuale indigenza, non hanno bisogno di prospettive di carriera per restare tali: la didattica efficace ha la sua magnifica ricompensa nella piacevolezza del lavoro e nella riconoscenza profonda di alunni e genitori. D’altra parte è un’ingenua illusione pensare che il ricatto dell’indigenza e dell’umiliazione professionale possa generare il miglioramento della didattica: l’insegnante non è l’ultima ruota del carro e non può essere messo con le spalle al muro perché infine può sempre scaricare sugli alunni la pressione che si esercita su di lui. Così l’insegnante che gli «esperti» valutano male può rassegnarsi a restare iniziale oppure può finalizzare la didattica alla valutazione che lo attende svuotandola di ogni spessore culturale oppure può anche forzare a suon di voti bassi gli alunni, costringendoli a imparare nelle ripetizioni private quello che lui non sa o non vuole insegnare in classe; nel primo caso la gerarchia è impotente a elevare gli «standard», negli altri annienta ogni presupposto della didattica.

È difficile immaginare quanto la scuola italiana potrebbe peggiorare se il disegno diventasse legge: la maggior parte delle scuole sarebbero ancora più misere, con l’apertura agli interessi dei privati l’attuale impoverimento dei contenuti scientifici diventerebbe uno svuotamento, una gratuita sperequazione fra gli insegnanti avvelenerebbe le relazione umane. Le prospettive catastrofiche implicano, però, che il loro aprirsi ne ostacoli il verificarsi e un ostacolo importante è già posto dal discredito che il neoconservatorismo si attira essendo riconosciuto come unico responsabile del disastro economico attuale. Il compito a cui siamo vincolati è quello di stornare con la coscienza di questo disastro la catastrofe che ci si prospetta.

Prof. Paolo Di Remigio